I reumi nel sangue e Tex Willer


Quando Doppiovubi aveva più o meno sette anni, il medico di famiglia – un individuo unto e ambiguo, che Doppiovubi ricorda col viso porcino e occhiali microscopici – disse ai genitori di Doppiovubi che il loro figliuolo aveva una malattia particolare, ossia aveva i reumi nel sangue.
Doppiovubi partecipava – ovviamente – ai consulti nello studio medico, e ricorda come se fosse ieri che il medico porcino aveva ammonito la sua mamma ad applicare una cura drastica, consistente in dosi massicce di penicillina (che lei chiamava pennicillina, così come ancora oggi dice impannata per riferirsi alla cotoletta, che tenerezza, Doppiovubi qualche anno fa, ignobilmente, la riprendeva, poi ha smesso e la guarda con un sorriso).
Queste dosi massicce di penicillina venivano iniettate per via intramuscolare, che un bambino non sa cosa vuol dire finché non gli infilano una specie di spada nella chiappa e non spingono lo stantuffo.
Se Doppiovubi potesse tornare indietro nel tempo, direbbe ai suoi genitori, Non ce l’ho i reumi nel sangue, diteglielo al dottore che è un incapace – e anzi andrebbe davanti al medico porcino e lo prenderebbe per il bavero bianco e gli griderebbe, Non ce li ho i reumi nel sangue, brutto pezzo di -, e in effetti da poco tempo Doppiovubi ha fatto qualche rapida ricerca e ha scoperto con ira achillea che i reumi nel sangue non ce li ha mai avuti, ma direte voi, Facile adesso con internèt, provaci tu nel 1975, dovevi sfogliare i tomi polverosi – d’accordo, ma quello era un fottuto medico, avrebbe dovuto capire che nessuno dei sintomi comuni era presente.
Ma ormai è andata così, indietro non si torna.
Obbediente, la mamma di Doppiovubi una volta al mese coglieva di sorpresa Doppiovubi, che era beatamente sdraiato per terra con i soldatini della Atlantic, quelli in miniatura, a costruire storie bellissime, a disporli in battaglie epiche, a farli parlare tra loro mimando voci diverse e simulando gli spari e le morti agonizzanti, e quindi la mamma gli arrivava alle spalle e diceva, Dobbiamo fare la puntura. Doppiovubi scappava piangendo sotto il letto, No, no, non voglio, e cercava di sottrarsi in tutti i modi, anche se sapeva di non avere scampo.
Era un dead child walking.
La “puntura” era tale per cui il liquido era durissimo a scendere nei tessuti, e ci voleva circa un minuto per farlo arrivare in fondo (Stai fermo, non irrigidirti altrimenti si spezza l’ago!). Durante quel minuto – un minuto infinito che dimostra che il tempo è un’entità soggettiva – Doppiovubi provava un dolore pazzesco e insopportabile, però la puntura andava fatta, non ce n’era.
Secondo gli insegnamenti tralatizi, la mamma di Doppiovubi aveva capito che per indurre il Nostro Eroe a mettersi prono e inerme, con le chiappe a disposizione, occorreva un incentivo, un premio, insomma, qualcosa del genere.
E così la mamma ogni mese – prima di arrivare alle spalle di Doppiovubi – usciva, andava in edicola e comprava il numero mensile di Tex, che la mamma chiamava Tess, - non essendo mai riuscita, chissà perché, a pronunciare la x -, la cui uscita per l’appunto veniva fatta coincidere con la puntura.
E così Doppiovubi stringeva i pugni e mordeva il cuscino mugolando, mentre il liquido gli penetrava nelle carni, e in mente già aveva le avventure del ranger texano, e dei suoi compagni Kit Carson e Tiger Jack. Ovviamente Tex sarebbe arrivato soltanto dopo, a iniezione compiuta.
Che poi, ma il piccolo Doppiovubi questo ancora non lo sapeva, era esattamente il paradigma in base al quale avrebbe sopportato il resto della sua vita.
Molte lacrime, e qualche piccola soddisfazione.

W.B.

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