Le Cronache di Doppiovubi Carabiniere (3)
Già, perché
mai Doppiovubi, mentre tutti tremavano come foglie, si appalesava così
distaccato?
Dovete
sapere che il padre della mia fidanzata dell’epoca sosteneva di conoscere molto
bene un certo colonnello dei CC, e mi aveva assicurato che gli aveva parlato, e
che io potevo stare ben tranquillo, perché il signor colonnello ci aveva messo
una buona parola, e visto che il signor colonnello era un pezzo grossissimo, io
sarei stato sicuramente destinato a Milano, via Moscova, a quattrocento metri
da mamma e papà, il che voleva dire una pacchia unica.
Ero in
una botte di ferro.
Quando
il sotto-tenente prese a leggere, dunque, la procedura (*) era questa, che egli
faceva il cognome del soldato e questi si doveva alzare in piedi, poi il graduato
proclamava il suo destino e generalmente il soldato si accasciava sulla
seggiola, in preda allo sconforto. Chi era di Brescia finì al battaglione
Cagliari. Qualche bergamasco finì a Udine. Altri -addirittura- in Calabria (un padano in Calabria resiste poco).
Io,
invece, ero in una botte di ferro.
Guardavo
alcuni che, quasi piangendo, dopo aver appreso che sarebbero finiti in luoghi
sperduti e inospitali, che neanche le terre di mezzo di Tolkien, appoggiavano
disperati la testa tra le mani sul banchetto e non si muovevano più, come fossero morti.
Qualcuno pianse davvero. Nove mesi in culo al mondo sono lunghi.
Io ero
in una b.d.f., e soprattutto sapevo di esserlo.
Quando
il s.t. fece il mio nome, mi alzai svogliatamente, come per espletare un’inutile
formalismo.
Avevo
una specie di sorriso ebete disegnato sulle labbra. E’ il sorriso di chi sta
per tirare un rigore decisivo ed è sicuro di non sbagliarlo. E poi, lo sbaglia.
“Roma.”,
disse il sotto-tenente.
E quelle
due sillabe mi si infilarono nelle carni dello stomaco, come una sciabola
affilata.
(segue)
W.B.