De brevitate, ovvero, Di come anche un romagnolo possa laurearsi in Bocconi (seconda parte)



Una delle possibili spiegazioni potrebbe essere, molto semplicemente, la pigrizia. L’uomo - di norma - non vuole fare fatica, e non la vuole fare per risparmiare energie, il che è giusto e naturale: l’energia, essendo una risorsa limitata, va consumata per qualcosa che valga la pena. Lo stesso dicasi per il tempo a disposizione. Purtroppo, però, qui stiamo parlando di contenuti: tra un tweet stupidissimo e un tomo di economia politica di alto livello, è fuori di dubbio che l’uomo medio scelga la prima soluzione, anche se la seconda potrebbe essergli molto più utile. Tra il breve e il prolisso, tendenzialmente si sceglie il breve, e quasi sempre si sbaglia.

Un’altra spiegazione si può rinvenire nel costante desiderio di qualcosa di nuovo. L’uomo ha innato in sé l’anelito verso nuove esperienze (portato, probabilmente, della legge di evoluzione della specie: senza nuove esperienze non ci sarà mai evoluzione, bensì l’estinzione), pertanto potrebbe ben essere che il soggetto si senta spinto geneticamente verso diversificazioni esperienziali quantitative (meglio cento concetti, completamente diversi tra loro, che un medesimo concetto approfondito e sviscerato sotto cento punti di vista diversi).

Secondo Doppiovubi, poi, gioca anche un certo ruolo la memoria. Gli studi dicono che nella memoria a breve termine non riusciamo a tenere a mente più di 5-7 item alla volta, senza averli inseriti nella memoria a medio termine (il che spiega per quale motivo un numero di telefono troppo lungo appena comunicatoci non riesce a essere ritenuto in memoria, se non dopo una serie continua e ininterrotta di ripetizioni a voce alta, se non troviamo subito dove annotarlo e se qualcuno non ci distrae). Essendo anche la memoria una risorsa limitata, una comunicazione molto prolissa richiede un maggiore sforzo mnemonico, e, come si diceva sopra, normalmente lo sforzo viene rifiutato o è estremamente difficile da digerire per chi non è molto resiliente.
E ancora, è risaputo che il cervello tende a completare le azioni; se ci imbattiamo in un compito arduo - quanto a lunghezza e durata -, la nostra mente preferisce escluderlo anziché cominciarlo e poi abbandonarlo.
Infine, la paura di non completare l'opera ci inibisce dall'intraprenderla.

Se ancora non lo si fosse capito, stiamo, tra l’altro, parlando del deprecabile fenomeno dell’abbandono universitario, piaga della nostra Società; dello scoramento che attanaglia un povero giovine quando prende in mano per la prima volta il suo tomo di millequattrocento pagine, e con un discreto entusiasmo, comincia dalla prefazione e dall’introduzione, col suo bravo righello e la sua brava matita (e qualche volta con l’evidenziatore giallo), ma dopo appena un quarto d’ora va alla macchinetta del caffè con quella brunetta del bancone davanti, i cui sguardi promettono cose indicibili in questo morigerato blog.

Quante volte Doppiovubi ha constatato con tristezza – tra gli scaffali del Libraccio – la presenza di volumi pressoché intonsi messi in vendita, sottolineati con dovizia soltanto fino a pagina 11, o 13, o 64 (mai oltre le cento pagine, soglia psicologica, oltre la quale si tende a completare la lettura), e poi ceduti tristemente per ricavarci qualcosa, Papà, ci ho pensato bene, preferisco la carriera di pilota di aereo, Pensaci bene, figliolo, Non sono portato per la medicina, Datti un po’ di tempo prima di rinunciare, Il tempo è prezioso, papà, non posso sprecarlo, non voglio ridurmi come te, Almeno vai a rivendere il libro, debosciato, dato che questo fallito qui ha speso un mucchio di soldi per farti studiare.

I vecchi metodi ottocenteschi – legarsi alla sedia per indursi a studiare o consegnare tutti i vestiti al maggiordomo scrivendo nudo, come pare facesse Victor Hugo, per impedirsi forzosamente di uscire a passeggio – rappresentano sistemi frustranti che cercano di convogliare e imbrigliare la forza di volontà, e ciò a detrimento del focus, elemento fondamentale per rendere produttiva la comprensione. Posso anche impormi di leggere per almeno un’ora senza fermarmi mai, ma se non lo faccio spontaneamente comprenderò e riterrò molto poco di quanto vado leggendo, e così finirà che controllerò spesso la pagina Facebook o andrò a vedere se il mitico Doppiovubi ha pubblicato un nuovo post, il che, se non sono le otto di mattina, è tempo sprecato.

E allora, che fare? Doppiovubi ritiene che si debba usare lo stratagemma bocconiano. Suddividere è la regola aurea. Qualunque possa essere la spiegazione del motivo per cui preferiamo comunicazioni brevi a comunicazioni lunghe (pigrizia, scarsità di tempo ed energia, bisogno di novità, pronostico di difficile completamento o paura di fallire) è un fatto che non siamo attratti da testi più lunghi di venti righe, come dice l’amico Giancarlo. “Μέγα βιβλίον, μέγα κακόν” diceva già Callimaco, oltre duemiladuecento anni fa, ben prima di Giancarlo. Gli stessi aforismi hanno un certo successo anche perché sono brevi.

E se è un fatto, accettiamolo in quanto tale; se non riusciamo a comprendere che un messaggio breve, molto spesso, non ci aiuterà a migliorarci, ma andrà ad affastellarsi alla rinfusa insieme ai miliardi di concetti accumulati nel corso della nostra vita, portando soltanto ulteriore confusione in menti già troppo disordinate, almeno adottiamo lo stratagemma bocconiano. Suddividiamo i cosiddetti mattoni in unità digeribili, e mangiamoli un po’ per volta. Magari risultano anche buoni.

Hemingway disse che quando uno scrittore ha molta voglia di scrivere, deve scrivere poco poco e poi fermarsi, anche se vorrebbe andare avanti.

Bisogna alzarsi da tavola non del tutto sazi. Il buon Roberto Vacca fece notare, una volta, che imparando qualche parola straniera al giorno – anche solo tre al giorno – in un solo anno si dispone del lessico di base di qualsiasi lingua. Vuoi studiare l’arabo? In un anno, dieci minuti al dì, ce la puoi fare, almeno ad acquisire i fondamenti. Questa di Roberto Vacca non è affatto una vaccata.

Una volta, addirittura, Doppiovubi – quando ancora non esistevano i tablet e gli e-book reader, aveva pensato – idea invero oscena e terrificante – di squadernare i libri, per portarne con sé sul tram quattro pagine strappate, o dieci al massimo, magari addirittura ripiegate in tasca, perché il libro-mattone, già con la sua mole massiccia, svolge una funzione deterrente, è come se ti dicesse, Non leggermi, tanto non ce la farai a portarmi a termine, sono troppo grosso per te.

Dunque suddividete, gente, suddividete. Trasformiamo Omero in Callimaco.
E, se potete, lasciate perdere twitter.
W.B.

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