Poco, ma buono

Naturalmente se si diminuisce la velocità con la quale si studia, si impara, e si cresce, e quindi si migliora la qualità dei contenuti della nostra mente, sarà necessario ridurre il numero delle azioni che si compiono.
Non puoi pretendere di fare cento cose, e farle tutte bene. Il tempo è una quantità finita; se occorre ridurre la velocità (ed è l’unica strada che ha senso), e aumentare il tempo dedicato a ogni singolo adempimento (ed è l’unica strada che ha senso), ne consegue - per necessità matematica - che si potranno portare a termine pochi compiti (‘poco’ è un concetto relativo, diciamo molti meno rispetto a quelli che di norma si effettuano).
Dovete dunque scegliere che cosa fare. La scelta è ardua e fondamentale: fare una cosa (anche qui, è una necessità fisica) implica il non farne un’altra.
Possiamo fare soltanto poche cose - se vogliamo farle bene – e quelle poche dunque devono essere di altissimo valore (altrimenti sprechiamo le nostre brevi esistenze). Se hai un’ora di tempo, sei costretto a nutrirti di ciò che meglio ti può far crescere. Cibo di qualità; fuori di metafora, sapere di qualità (*).
Quello che il vostro beneamato Doppiovubi vi ha appena detto si muove nella direzione opposta rispetto a quello che accade oggi. Oggi l’idea dominante è quella di fare più cose possibili nella minore unità di tempo possibile. Dunque, per necessità, velocità e approssimazione. Superficialità. Vacuità. Ci si muove sul pelo dell’acqua, non in profondità. Il 2% fa di tutto affinché le masse rimangano sulla superficie. E’ necessario che soltanto loro, i 2%, scendano in profondità. Pochissimi devono detenere il sapere e i mezzi per dominare, innanzitutto culturalmente, le masse becere e ignoranti. E dunque si diffonde artatamente l’idea secondo cui veloce è bello. Fare un sacco di cose è un modello socialmente accettato e apprezzato. Arrivare a sera dopo aver lavorato tantissimo – non importa che cosa si è fatto. Ciò che conta è aver ‘lavorato’ per moltissime ore e aver fatto (e risposto a) tantissime telefonate, e aver inviato (e risposto a) centinaia di e-mail. Il Numero, innanzitutto. La stanchezza non va bene (o va bene, nella misura in cui è indice del fatto che sei stato produttivo). Se sei stanco, devi assumere il tale integratore, devi mangiare il tale snack (**), e riparti di slancio! Spingi di più! Fai più cose! Solo così batterai l’agguerrita concorrenza.
Nel frattempo, non sei certamente tu quello che iscriverà il suo figliolo a Cambridge. Il giovane virgulto – uscito sorridente da Cambridge – giocherà su un campo diverso. Sarà letteralmente fuori dal terreno fangoso della concorrenza, dove i N.S. si scannano tra loro, senza alcuna pietà.
(segue)

W.B.

(*) E già questo non è un compito per niente facile. Nel mare magnum di merda che ci circonda, già riuscire a selezionare il sapere di qualità è un’impresa. Facciamo un esempio sempre nell’ambito storico. Poniamo che un giovane adepto di Doppiovubi voglia approfondire la figura di Bismarck (idea ottima, il percorso di Otto ci aiuta a capire molte cose); la scelta potrà (dovrà) cadere sulla monumentale biografia di Lothar Gall. Se si sbaglia questa scelta iniziale, diciamo se si sbaglia la scrematura delle fonti, le poche ore che abbiamo a disposizione saranno buttate dentro il cesso. Tanto vale, allora, rincoglionirsi davanti alla TV.
(**) Doppiovubi ha notato con disgusto e ribrezzo che ormai moltissimi spot - o manifesti - sono basati sul tema della stanchezza da vincere (nel senso che deve essere vinta). Se uno è stanco, sfinito, esausto, significa che deve dormire, cazzarola, non che deve bombarsi di qualcosa, fosse anche solo una merendina, per ripartire. Non deve ripartire, deve riposarsi.

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Allahu Akbar.

Grazie, sai.