La ricerca della felicità (26)



“L’entropia è funzione crescente della probabilità dello stato macroscopico di un sistema, e precisamente risulta proporzionale al logaritmo del numero delle configurazioni microscopiche possibili per quello stato macroscopico: la tendenza all’aumento dell’entropia di un sistema isolato corrisponde dunque al fatto che il sistema evolve verso gli stati macroscopici più probabili; essendo in generale la probabilità di uno stato inversamente proporzionale al suo grado di organizzazione e di ordine, l’entropia è anche considerata una misura del disordine e dell’indifferenziazione di un sistema, e come tale viene assunta anche al di fuori del campo strettamente fisico.”
[Dizionario Enciclopedico Treccani, voce Entropia]

Don Alfio (Carlo Verdone): “Rammentiamoci, Anselmo, che anche per la donna esiste un’alba e un tramonto, perché rammentiamoci che anche la donna si guasta, quasi fosse un fiore esposto alle rigide brezze del primo inverno. La voce, che prima aveva una certa delicatezza, si ingrossa, si fa quasi sgraziata, i capelli si cominciano a fare bianchi e non sono più quel nero, bel nero di prima; anche le vene varicose fanno la loro comparsa, si insinuano attraverso la pelle delle loro gambe e si ramificano, quasi fossero una radice…”
Fiorenza (Isabella de Bernardi), stravaccata sul divano a fianco, fa le corna all’indirizzo di Don Alfio): “Tiè!”
Don Alfio: “Veramente, solo avendo questo specchio, questa lastra radiografica davanti a noi, potremmo comprendere l’evanescenza della bellezza estetica, poi, cari ragazzi, se lo volete capire, lo capite, se non lo volete capire, allora sapete che vi dico, io mi alzo e mi vado a lavare le mani, come quando Pilato si lavò le mani di fronte a … " (schiocca le dita ripetutamente per cercare nella memoria il nome giusto, che non gli sovviene)
Mario, padre di Ruggero (Mario Brega): “… a nostro Signore! Santa Madonna, manco le basi del mestiere te ricordi! Ma che cazzo, Alfio!”
[Carlo Verdone, Un sacco bello, 1980]

Eh, sì, dobbiamo andare avanti.
Ma, al tempo stesso, andiamo sempre indietro.
Eppur molti vivono – o danno mostra di vivere – come se questo non fosse, come se il principio di entropia non aggredisse (ferocemente) anche il corpo umano (direi, più che anche, soprattutto il corpo umano, perché, disgregato il dispositivo senziente, ciò che è fuori dal detto dispositivo non esiste più, in quanto non viene più percepito: ciò che non viene percepito, di fatto non esiste: per voi - per molti di voi, per quasi tutti voi -, il disgraziato e incolpevole Duca d'Enghien non esiste, non è mai esistito, anche se è esistito, eccome, e adesso non cercatelo sul web, per favore, lasciatelo nel nulla del non-essere, per quanto vi riguarda).
Eppur molti, appunto, vivono come se niente fosse, come se non dovessero morire mai, come se – addirittura – potessero migliorare il loro corpo.
Possiamo al più “migliorare” (termine invero relativo, e quindi discutibile) ciò che è fuori di noi, ma non potremo mai migliorare noi stessi (“noi stessi” intesi, lo ripeto, come corpo fisico, ovviamente, non stiamo parlando di anima, bensì di vil materia). Passati i diciotto anni circa, non c'è maratona che tenga, puoi mangiar vegano, bere molta acqua, essere libero dallo stress, fare yoga, ma, per quanto ti impegni, stai andando indietro.

(segue)

W.B.

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