Inherent Vice.

Dopo lunghissima riflessione, durata da gennaio a oggi, Doppiovubi ha alfine speso venti preziosi suoi euro, trasferendoli così, quanto meno in parte, al patrimonio della Einaudi, per acquistare Vizio di forma di Thomas Pynchon. Quando però Doppiovubi ha fatto mente locale sul grave fatto secondo cui Einaudi aveva pubblicato L'incanto del Lotto 49, mentre i veri capolavori, come L'arcobaleno della Gravità e V., se li era presto accaparrati la Rizzoli, ha tremato un poco, perché conosce abbastanza bene L'incanto e in parte condivide il dovizioso quanto taglientissimo post recensivo, o re-censorio, di PIM su quel diciamo romanzo. C'è poi da aggiungere che in America Inherent Vice è uscito il 4 agosto 2009, e la traduzione del mitico Bocchiola è arrivata nel gennaio 2011, cioè "solo" diciotto mesi dopo. Against the day, al contrario, era uscito negli USA il 21 novembre 2006, ma prima che la Rizzoli lo pubblicasse passarono più di due anni e mezzo. Doppiovubi si è detto, Forse stavolta Einaudi ha fiutato l'affare e si è fiondata per prima sul Thomas, arruolando ancora il buon Bocchiola (o forse, più semplicemente, la traduzione è stata molto più laboriosa, perché Contro il giorno consta di ben più di mille pagine). Ma ormai è inutile recriminare, i venti euro sono finiti a Torino, in via Biancamano n. 2. Quindi proviamo a leggerlo, e speriamo bene.



Doppiovubi è arrivato in scioltezza a pagina 114 di 470 (ossia al 24,2%, percentuale significativa per cominciare a tentare un giudizio non superficiale), e il terrore di trovarsi innanzi a un nuovo Incanto è cresciuto vieppiù; gli ingredienti c'erano tutti. Poi Doppiovubi si è detto, Non ho capito niente. Ha ricominciato da capo. La seconda volta ha letto parola per parola, soffermandosi su ogni frase, cercando di comprendere tutto, inseguendo significati occulti e gustando la struttura perfetta di ogni frase, di ogni paragrafo, di ogni capitolo, gli elenchi dosati e le parentesi nelle parentesi all'interno di altre parentesi, in quello che banalmente si potrebbe definire un gioco di scatole cinesi ma che in realtà è la trascrizione del funzionamento delle associazioni dei neuroni di chiunque di noi. Ed ecco che Doppiovubi ha goduto, e ha capito che Pynchon non va letto per scoprire la fine della fabula (o del plot, in questo caso). La trama è del tutto irrilevante, è l'occasione, il pretesto per entrare in un mondo diverso, che è il suo ma anche il nostro. I libri di Pynchon potrebbero durare mille o centomila pagine. Non importa. Quello che è importa è il viaggio, non la destinazione, come nella vita, in realtà, perché il senso e il bello della vita sono il vivere inteso come percorso in divenire, non certamente il conseguire risultati, non è possibile nella vita conseguire alcun reale risultato, l'unica vera destinazione - comune - essendo la fossa, che non è poi un bel risultato. Tornando alla destinazione letteraria - avulsa dal completamento del tomo, in quanto l'atto di folgorazione e/o illuminazione è raggiungibile in qualsiasi momento - potrebbe essere l'auto-conoscenza di sé, attraverso l'auto-conoscenza dell'altro. Grazie Thomas. Grazie.



Poi Doppiovubi, salendo sul puzzolentissimo tram n. 14, ha visto una signorina che estraeva tutta felice dalla borsetta Il tempo che vorrei di Fabio Volo. E se conoscete solo un po' Doppiovubi, forse siete in grado di indovinare che cosa ha pensato.



W.B.

Commenti

pim ha detto…
Marcel Proust scrisse, in nota alla Recherche, che il suo lettore avrebbe dovuto fare almeno tanta fatica quanta ne aveva fatta lui.
Il discorso è complesso. Qualsiasi essere umano farà più fatica di Dante, che pure ne fece, a leggere (come andrebbe letta) la Commedia.
Nello stesso tempo moltissimi lettori possono fruire pienamente e senza sforzi di un'opera dell'ingegno che è costata per converso fatiche immani al suo autore. Si pensi alla poesia. Comprensione e fatica, insomma, non sono grandezze direttamente proporzionali. Peraltro, ogni discorso intorno all'arte resta troppo vasto per essere ricompreso in qualsivoglia recinto. Spesso il genio di un uomo genera in un istante capolavori immediati e al tempo complessissimi, altrettanto spesso il medesimo genio si trova a dover, voler affrontare un infinito, a volte interminabile labor limae. La qualità di un'opera pittorica, forma d'arte a me quasi del tutto sconosciuta, nessuno osa pensare possa essere giudicata in base alle ore di lavoro del suo autore. I quadri iperrealisti non godono di molto credito, mentre le latte di vernice stravaccate da Pollock sono bandite a suon di milioni (e non sto parlando del marciume del mercato).
Per tornare, anzi per arrivare al buon TP, egli non è il solo, e mi permetto di dire non è il migliore, tra coloro che, volendo dar credito, per atto di fede e stima, alla tua impostazione, meritano lettura parola per parola.
La difficoltà di fruizione, di comprensione, di interpretazione, penso possa darsi per assiomatico (anche se non lo è) non è metro di giudizio di valore estetico.
Non sempre la via giusta è la via difficile. Sono abbastanza stanco dell'universo spiegato, intravisto, attraverso la porta stretta (e qui mi lancio nel teologico). Dio deve, ontologicamente deve, essere compreso dal più piccolo degli uomini. La forma d'arte che partecipa del Sublime non può avere connotati diversi.
Ovvero, oso bestemmiare, la bellezza è nella semplicità. La verità è nella semplicità. La luna, le stelle, gli archetipi che informano di sè ogni decisione umana, come quella di prendere carta e penna, sono lì da vedere da sempre e per sempre. La matematica, unica, ahimè, forma universale, è, alla fine, semplice. Tutto il resto è noia.
Anonimo ha detto…
Il culto della via semplice è pericoloso. Non credo sia errato in senso assoluto, solo trovo la semplicità un punto di arrivo e non di partenza. In Poesia l'abuso del verso libero o delle figure proprie della prosa (un linguaggio del tutto diverso e piuttosto antitetico nei modi di portare Senso) hanno portato alla semplice distruzione della credibilità di un mezzo(e parimenti di un fine). Con molle e potere distruttivo paralleli, la maggior parte degli uomini usano con disinvoltura un telecomanto o un computer senza avere la minima idea di cosa comporti per se e per la concreta comprensione delle cose.
Trovo che la ricerca della complessità, pur se in fondo una rara patologia, sia portatrice di grandi possibilità per il singolo come per la comunità, poiché sonda 'luoghi' che mai si visiterebbero.
dominicus
Anonimo ha detto…
E' divenuta prassi diffusa la confusione tra bellezza ed effetto estetico, secondo una visione dell'arte che ne riduce la portata alla pura comunicazione semantica (lo stimabile Beaudrillard la definirebbe, meglio ancora, "segnica"). Eppure la percezione estetica può produrre, in base agli elementi oggettivi dell'opera che ne costituiscono la fonte, anche effetti neurofisiologici assai negativi.

L'arte cosiddetta postmoderna è anzi costruita per produrre choc, disorientamento, forte afflato emotivo, ovvero - come nel caso dell'autore citato Pynchon - estasi logico-razionale sulla base della propria ricercatezza ermeneutica disincarnata dalla narrativa. Ars gratia pruriginis.

Invece, la vera arte, anche quella narrativa, ha un fondamento epistemico in grado di produrre un integro e sublime rapporto tra reale e soggetto ispirato, frutto di una profonda ricerca nell'intimo e insieme nell'esteriore. E' insomma continuità creativa capace di sanare l'autore e quindi anche il fruitore. Non esistono solo misure soggettive per identificarla, ma certo è che, per usare un'espressione precisa di C. Alexander in merito a tali effetti: "making wholeness heals the maker". Dove manchi questo amore per la realtà si crea solo distorsione, e desiderio autocompiaciuto di vedervi molti affini di "pelle" compartecipare.

Ho una tesi, che esplicito con massima schiettezza: l'arte postmoderna, a causa di questa intrinseca distorsione dei fini dell'opera sublime umana - che mischia complesso e semplice, dissapori personali e sociali, con gusto di mercato, a seconda del main consumer definito dall'ufficio marketing dell'editore - devia le migliori intenzioni del fruitore, e legittima quelle peggiori dell'autore, fomentandone le personali inclinazioni non risolte.

Di fatto, nel continuare a offrire queste distrazioni propulsive e comunque appetibili, può creare dipendenza non meno forte delle sigarette.

Paolo
pim ha detto…
postmoderno è una definizione, non un genere letterario; definizione creata dall'industria culturale, come le spice girls. l'unica cosa che può salvare il nostro amico TP è che egli possa essere considerato, con giudizio di valore, qualitivamente diverso, ovvero superiore, alle simpatiche spice.
io non so se egli lo sia o no. non siamo più nemmeno sul terreno del relativismo. WB pone una questione sotto forma di dichiarazione. se vi sia un fine. questione di modestissima entità. evidentemente no. evidentemente non esistono ascisse e ordinate per collocare qualtitativamente un'opera d'arte (a prescindere dal brutto film di weir). né, ahinoi, può soccorrere il sentire comune, giacché lady gaga, la signora germanotta, è una nullità, artisticamente parlando, e nullità ogni cosa ella possa produrre, benché miliardi di esseri umani la venerino.
cosa dunque?
la critica letteraria? i saggi? i padri nobili?
dove collocare i paletti?
se facciamo sentire la nona agli aborigeni, si mettono le mani alle orecchie. se avessimo mosrato una tela di van gogh a un greco del V secolo a.c. si sarebbe messo a sghignazzare. le opere di cattelan potrebbero diventare "classiche", come già lo sono le orribili produzioni di damien hirst.
ma se l'arte è relativa e non può essere cartesianizzata, allora?
allora vale il giudizio personale? il brividino lungo la schiena, il batticuore, la pianta dentro la pancia, le formichine?
ma di che cazzo sto parlando?
Anonimo ha detto…
(1/2)

Pim, credo occorra fare ordine nell'argomentazione. Tra l'altro mi rendo conto di soffrire per primo di disordine espositivo sulle questioni complesse, dando per scontati molti presupposti tematici, e mi scuso per gli equivoci ingenerati a causa del poco sforzo. L'argomento andrebbe trattato strutturalmente a partire dai presupposti della conoscenza per poi procedere verso gli effetti (magari abbondando di esempi, come mi suggerisce spesso Doppiovubi), ma in questo contesto posso solo ripercorrere alcuni punti di sviluppo tematico per provare a dare una risposta ai giusti dubbi d'impostazione del precedente commento.

Anzitutto, "postmoderno" è una definizione data da Lyotard nel 1979 in relazione a un fenomeno già in atto da tempo e non pertinente alla descrizione di uno specifico genere di consumo/produzione artistica, bensì ad una condizione permanente e diffusa nei singoli e nelle masse (nelle socetà industriali e postindustriali), che cancella il normale procedimento di coscienza storica nelle società e la fine di ogni Grande Narrazione. E'importante sottolineare che postmoderno, nel senso lyotardiano, ha una connotazione antropologica e non meramente culturale, ed è gravida di conseguenze sul piano gnoseologico.

Occorre quindi distinguere Moderno e Postmoderno a partire da questa sfera tematica antropologica relativa alle ricadute sul piano della conoscenza, senza entrare immediatamente nell'ambito dei giudizi di valore.

Il "Moderno" (generativo almeno di due definizioni importanti e distinte nella cultura, Modernità e Modernismo, su cui non mi soffermo) si colloca nella scia postcartesiana dello sviluppo della conoscenza, concentrandosi soprattutto sulle sue applicazioni. Tale impostazione ha l'attitudine intrinseca a definire apriori categorie e rapporti tra oggetti di indagine, e a separare seccamente la sfera soggettiva dall'oggetto osservato, in una logica d'efficienza dell'azione umana. Dall'altro lato il "Moderno" trova importanti fondamenti antropologici nella cultura darwinista-spenceriana-malthusiana in relazione ai fini dell'agire umano e al prodotto del suo pensiero. Tale visione ha infuso nella percezione della storia, della cultura e del tempo degli elementi di controllo "funzionale" secondo una teleologia di stampo progressista-evolutivo, forte di numerosi rigori preconcetti, diffusi in ogni disciplina e nella conoscenza stessa (sulle cui conseguenze ed effetti vi sarebbe da discettare a lungo). Importante è rammentare che funzione e progresso sono le matrici antropologiche e gnoseologiche essenziali per il pensiero Moderno.

Il postmoderno ha rotto questo schema funzionale-evolutivo, stravolgendo completamente anche il senso stesso della conoscenza e del suo valore nella storia. Le radici di questo fenomeno sono numerosissime, e anche su tale tema taccio per sintesi, pur nella certezza che sarebbe di grande giovamento a questa argomentazione la sua trattazione.

Per venire al punto contestato, la condizione postmoderna richiama alle sue basi una fondazione esclusivamente ermeneutica, tutta improntata su forme e apparenze, secondo un approccio di totale rottura rispetto al funzionalismo moderno e alla sua teleologia progressista. Accettata la premessa per cui non esiste una Epistème conoscitiva su cui valga la pena lavorare secondo una diffusa base comune (qualcosa di diverso dal relativismo gnoseologico, che non è detto rimandi ad una matrice antropologica), ogni espressione umana deve legarsi agli afflati interiori o alle mere strumentalità formali, secondo tecniche di vario genere, ma riconducibili per metodo al "pastiche" e all'orizzontalità conoscitiva inclusa nell'orizzonte dell'effetto estetico.
Anonimo ha detto…
(2/2)

La conoscenza nella condizione postmoderna non necessita di sviluppo o direzione, essendo collocata atemporalmente nella sfera soggettiva del soggetto "esprimente". La sua attitudine all'indeterminatezza temporale (o all'uso degli elementi temporali come strumenti indistinguibili rispetto agli effetti estetici ricercati) e il totale disinteresse ad un percorso storico-critico o antropologico-epistemico alimenta ancor più il fenomeno di "disincarnazione" di ogni opera umana rispetto al reale. Il vero obbiettivo dell'autore postmoderno è appunto l'effetto estetico, la produzione di una sensazione, intellettuale o emotiva, di un "flusso di coscienza", valido sempre al presente.

In questa dimensione, di pura ermeneutica interna, le categorie migliore-peggiore in merito ad un'opera che accetta i presupposti della condizione postmoderna sono solamente legati alla complessità e al numero di strumenti richiesti al lettore per il discernimento estetico. Certo che l'opera di Pynchon è migliore di quella di Fabio Volo nell'ambito della complessità e del numero di strumenti intellettuali coinvolti, così come l'opera di Bacon è migliore di quella di Cattelan, di fatto però ne reca i medesimi presupposti. E' un'opera d'afflato intellettuale con finalità appositamente ridotte rispetto alle potenzialità dello strumento adottato (narrativo o figurativo che sia), dà per scontata la frammentazione e la scomposizione come elemento costitutivo del rapporto tra lettore e realtà narrata, non si colloca in una dimensione antropologica precisa, strumentalizza perfino la narrazione per "creare il suo mondo", come intende Doppiovubi, cioè la sua complessità estetica, il suo enigma formale ed estetico cui far compartecipare il lettore dalle buone capacità intellettuali.

Doppiovubi fa bene a dire a di provare gratificazione per descrivere la sensazione data da questa lettura (non credo distante da quella fornitagli dalla visione di Lost o prodotti del genere), perché questo era il fine dell'autore: fornire un'esperienza chiusa cui far accedere secondo un particolare tipo di inclinazione del fruitore, inclinazione però antropologicamente e gnoseologicamente irrilevante. Semina poco sul piano storico-sapienziale, non è socializzante se non per riflessi formali, non radica nel proprio cammino di ricerca di senso e di relazione: in sostanza è una droga letteraria. E come droga, volta ad appagare un'inclinazione irrisolta, rende abbastanza inutile il confronto con opere fondate su altri pruriti postmoderni, come quelli emotivi di Moccia, o quelli di richiamo fashion del genere di Fabio Volo. A questo punto mi permetto di argomentare a contrario. Ognuna di queste opere certamente contiene qualcosa di interessante, qualcosa che può richiamare positivi elementi di riflessione. Il problema è che tutte queste opere non sono arte sublime, e complessivamente non fanno bene a chi ne fruisce, costituendo peraltro uno strumento di silente abuso delle proprie sensibilità e attitudini.

Per questo il postmoderno è a mio avviso un fenomeno radicalmente da combattere e allontanare, è riduttivo e crea atteggiamenti conoscitivi distorti.

Ora, è naturale che mi si possa porre un'ulteriore domanda. Cosa è valido sotto un profilo antropologico-gnoseologico nel contesto narrativo, perché tale profilo è prioritariamente rilevante nel giudizo su un'opera e come si distingue un'opera buona da una che non lo è sulla base di parametri che non siano solo soggettivi?

In parte ho risposto nel precedente commento, citando Alexander. Per completezza tuttavia non mi spingo oltre. Secondo il richiamato insegnamento di Doppiovubi che mi invita all'esempio, mi premurerò di fornire qualcosa di "pratico" ad entrambi su cui riflettere e nutrirsi.

Se tuttavia a partire da queste premesse esposte vi fossero dei punti da obbiettare o svuluppare, sono a disposizione quale fedele lettore di Doppiovubi e dei suoi pregiati commentatori.

Paolo
pim ha detto…
mi scuserà Paolo se insisto nel semplificare. come lo stesso WB ricorda, citando Leopardi, la frammentazione uccide la bellezza. Se è necessario, e desidero tornare sul terreno proprio del post che si commenta, analizzare, scomporre, delibare minuziosamente, lavorare per sintagmi, se in altre parole è necessaria l'analisi del testo per apprendere la bellezza del testo, c'è qualcosa che non va. Nella mia ignoranza, la quale è davvero tale, non riesco, per esempio, a trovare "bella" la musica dodecafonica. Cartesianamente, adesso sì, esiste lo spirito e la materia. L'arte, forse, è nutrimento per il primo. Se per trovare bello un pezzo di Nono dobbiamo spaccarcici la testa, lo spirito ha perduto, anzi è perduto.
Anonimo ha detto…
La lunga premessa sulla differenza tra postmoderno e moderno non lasciava intendere necessariamente un'adesione ai canoni moderni del modo di intendere l'arte. La frammentazione, di cui parla Pim, si sviluppa nel modo di intendere la conoscenza e l'espressione umana nel Moderno. E' visibile come ravvicinato effetto di quella scia intellettuale dualistica antica quasi come l'uomo, che vanta tra le sue fila tanti "esegeti" importanti, Platone, Cartesio, Constant, Kant, Hegel. Consiste nella rottura con un atteggiamento umile verso la complessità del reale, e nel tentativo di costruire vincoli funzionali fondati sull'astrazione e razionalizzazione per via del pensiero. In quest'ottica, non contano più le distinzioni funzionali alla conoscenza, ma separazioni nette (anima e corpo, passato e presente, pensiero ed emozione, ecc.). Da un certo punto in poi tale fenomeno è entrato addirittura nello spirito dei tempi, influenzando il senso della storia. Eventi quali la Riforma e la Rivoluzione francese, pur nella loro diversità, sono risultati centrali in questa trasformazione. Nell'Ottocento, in particolare, questa concezione di rottura ha perfino distrutto l'atteggiamento di ricomposizione culturale dettato dal normale avvicendarsi degli afflati umani nel tempo, travalicando stili e narrazioni. Ciò che di negativo (sotto questo profilo gnoseologico) l'uomo ha sperimentato tra illuminismi e romanticismi si è riversato nel moderno.
Non intendo naturalmente sparare a zero sulla modernità, bensì sul modernismo, l'atteggiamento autoreferenziale che ha condotto a prodotti innaturali seppure geometricamente "ineccepibili" quali la dodecafonia in musica, la Bauhaus nell'architettura, la Scuola di Vienna nel diritto.
La postmodernità ha portato ad accentuare questi passaggi innaturali, fuggendo dalle gabbie della modernità per aprire le porte ad avanguardie e a un panorama culturale confuso e livellato verso il basso, nonché fagocitante forme e funzioni a uso e consumo della spettacolarizzazione.

Prima di tornare ad esempi concreti e a Pynchion, condivide Pim queste precisazioni?

Paolo
pim ha detto…
vedi, caro Paolo, nella mia piccolezza ritengo ineluttabile qualsiasi avvenimento si ponga nella dimensione del progresso.
dato Leopardi, o Hegel, è obbligatorio Pynchon, allo stesso modo in cui data la fisica classica si giunge alla fisica "moderna". dato il moderno, dunque il postmoderno, in altre parole. qualcuno avrebbe comunque scoperto il fuoco, la ruota, il dagherrotipo, la relatività. qualcuno avrebbe comunque messo la merda in scatola, dato raffaello.

non so se queste righe soddisfino la tua domanda.
scarzino ha detto…
io ho comprato "sciamanager".
Anonimo ha detto…
Caro Pim, capisco il concetto, tutt'altro che frutto di piccolezza: è parzialmente esaustivo, ma contiene un riduzionismo.

Un conto è affermare che dato un progredire di tempi e circostanze che arricchiscono il piano della conoscenza umana (quella artistica come quella applicata alla tecnica) i prodotti sopravvenuti esprimano maggiore compiutezza in merito allo stesso ambito, o se ne traggano dei vantaggi/migliorie, pur con tutti i limiti degli autori, le devianze e le decadenze più o meno peculiari dei tempi. Altro conto invece è considerare in posizione quasi terza e determinista l'ineluttabilità di un continuum tra Raffaello e Piero Manzoni, senza verificare se esista realmente una continuità (il "progresso" la esige) e soprattutto cosa costituisca il "progresso" sul piano dei criteri valutativi e come si evidenzi nelle opere.

Mi pare che la differenza tra le due visioni consista semplicemente nel maggiore o minore desiderio di entrare nel merito, di conferire una scala di valori quantitativa nella qualità, di considerare il contenuto di tali prodotti: per questo mi permetto di tenere alto il registro analitico, senza pretesa di esaustività. Il tema lo richiede e per tale ragione vado compiendo osservazioni sul contesto culturale della produzione di Pynchon, confortato dalle differenze tra moderno e postmoderno, e non di meno tenendo conto della "dimensione del progresso".

Comprendo d'altra parte il desiderio di semplificare lunghe considerazioni in un blog, ma qui è in gioco - sebbene tra il serio e il faceto - il modo stesso in cui accogliamo prodotti umani complessi, che incidono - comunque vada - sulle scelte o sul senso di ciò che compiamo. Come ci alimentiamo per sopravvivere, ma anche per stare bene, così vale per ciò che per nostra natura siamo portati a immagazzinare con la cultura, sia nella banale sopravvivenza data dall'arricchimento semantico e gioco intellettuale (necessario ad esempio a professionisti che devono tenersi allenati nelle loro naturali inclinazioni), sia nel complesso più ampio delle reazioni che un prodotto d'ingegno induce nel fruitore.

Il punto è che non tutto fa bene, e non tutto è conseguenza del progresso. Anzi, mi permetto di migliorare tale criterio, proponendo di pensare più che al "progresso" - che rimanda alla linearità teleologica modernista, spesso tecnicista e comunque aleatoria -, al concetto di "sviluppo umano" che attiene alla completezza dell'azione in ragione dell'elemento del beneficio umano interno ed esteriore, tanto nel tempo quanto nella sua contingenza.

Ora, la domanda cui mi accingo a rispondere, è se Pynchon nell'opera Inherent Vice integri o meno presupposti di "sviluppo umano", tenendo certamente conto della "dimensione del progresso", e se sia una vera opera d'arte, buona per chi la legge o cos'altro. Sempre che venga accettata la emendatio di questo nuovo commento.

Chiedo venia per l'ennesima precisazione: non desidero "prendere" Pim e Doppiovubi per sfinimento, ma mi piace pensare che procediamo in accordo almeno su alcune premesse a monte. Altrimenti non giova a nessuno che prosegua, tanto meno a me stesso, proprio date tutte queste premesse ("making holeness heals the maker", come dicevo fin dall'inizio).

Paolo

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