[Intervallo-4 : Good Enough]

Se tutto è perfettibile, allora è logico che, tra il compiere un'azione in modo pessimo, totalmente errato, e il compierla in modo perfetto, totalmente giusto, come la compirebbe un ipotetico Essere Perfetto, intercorrono infinite graduazioni. 
Si tratta di due punti estremi.

E' evidente a tutti che ogni azione è indirizzata a un fine. Il giocare una partita a tennis è compiuto in vista di un fine, che può essere quello di vincere la gara, di divertirsi, di 'primeggiare', di migliorare la propria tecnica, di allenare i muscoli, di adempiere a un obbligo (morale o sociale), di compiacere qualcuno o semplicemente di 'passare il tempo' (o anche implica alcuni di questi fini insieme, o addirittura tutti; ma ce n'è sempre uno 'primario'). In ogni caso, uno scopo non può mai mancare. E ciò anche se il soggetto non se ne accorge. Infatti raramente, ormai (anche se sembra incredibile), gli esseri umani sono consapevoli del fine (o dei fini) per cui compiono un'azione qualsiasi. 
Lo scopo è tipicamente 'soggettivo': ognuno ha il suo. Se consideriamo che a volte i fini sono più di uno, come detto, e in grado diverso, con il gioco delle combinazioni diventa abbastanza difficile che un soggetto abbia un fine del tutto identico a quello di un altro soggetto.

I due punti estremi di cui sopra (compiere un'azione malamente, o compierla perfettamente) rappresentano due modi opposti di interpretare il rapporto tra azione e fine; eppure, nell'esperienza di Doppiovubi, tutti vogliono raggiungere il proprio scopo: non fanno qualcosa 'tanto per farla'. Anche coloro i quali compiono le azioni malamente, tendono a realizzare il proprio fine; soltanto, sperano di riuscire a ottenerlo investendo meno energia e tempo possibili. Sono coloro che avevamo già incontrato in un post precedente. Un ragazzino che studia malamente, ha comunque lo scopo di ottenere un buon voto, o comunque un voto sufficiente. In genere l'essere umano si chiede: che cosa devo fare per ottenere questo mio scopo? e a seconda della risposta che si dà, orienta il proprio comportamento. Tutto parte dallo scopo che, per così dire, 'guida' le azioni. Gli scopi sono come magneti. Una volta che abbiamo uno scopo in mente, e ci siamo posti quella domanda vista sopra (e vi abbiamo risposto), allora tutto procede 'in automatico' (per inciso, questo 'automatismo' è la causa primaria della pigrizia e della noia, perché si vorrebbe 'saltare' direttamente al conseguimento del risultato).
Cristiano Ronaldo vuole segnare più gol possibili in una gara, esattamente come Patrick Cutrone, odierno attaccante dell'Empoli. Applicata la tara del talento naturale, tuttavia, i due certamente non compiono le stesse azioni per pervenire allo stesso scopo. Con tutto il rispetto per Cutrone (che è un giocatore diligente e serio), Ronaldo - che è indiscutibilmente un 'perfezionista' - si allena in modo compulsivo e ossessivo, e cura ogni singolo aspetto del procedimento che - secondo lui - lo condurrà al fine di 'segnare più gol possibili'.

Detto questo, torniamo ai due punti estremi. Coloro i quali fanno le cose del tutto malamente (primo estremo) hanno di mira soltanto il fine. Se uno vuole 'caricare' la lavastoviglie - procedimento in sé banale, ma paradigmatico - e ha in mente soltanto il fine (chiuderla al più presto, premere il pulsante di avvio e andare a guardarsi i nuovi messaggi su whatsapp), tutto il procedimento sarà svolto malamente, in fretta, e sarà prono all'errore. Questo per un semplice motivo: l'attenzione non è rivolta al singolo passo del procedimento stesso, ma al fine. La mente è tutta fissata sullo scopo, dunque - durante il procedimento - il soggetto non pensa a ciò che sta facendo (per esempio, non pensa a disporre gli oggetti in modo ordinato, tale per cui non vadano a urtare la pala girevole che semina acqua, impedendone il tragitto), ma pensa ad altro (ai messaggi whatsapp che sta per leggere). Il risultato è che è probabile che la pala girevole venga bloccata, e due ore dopo, all'apertura della lavastoviglie, i piatti siano ancora pieni di sugo. Doppiovubi - forse per sua fortuna - non è dentro la testa di Cristiano Ronaldo, ma è convinto che il portoghese, quando cerca di dribblare gli avversari, sia spasmodicamente concentrato non sulla rete che vuole segnare, ma sulla perfezione del singolo gesto che gli consentirà di superare l'uomo. Lo scopo finale è 'sullo sfondo', quale mera 'guida' del procedimento. La differenza - ripetesi, fatta la tara del talento naturale - è tutta lì. Il pianista 'di grido', mentre sta suonando, non ha lo scopo di arrivare agli applausi alla fine dell'esecuzione, ma si concentra sul singolo suono - o gruppo di suoni - che sta causando, cercando di causarli in modo 'perfetto'. Ma basta con gli esempi, tanto vi è chiaro.
Naturalmente questo ragionamento conduce a una 'frammentazione degli scopi': il soggetto, pur avendo sempre di mira, sullo sfondo, il fine primario, quale guida, quale 'faro', si concentra sull'attuazione consapevole (o inconsapevole, a un certo livello) di centinaia, migliaia, decine di migliaia di 'micro-scopi', che, riuniti tutti insieme all'esito del procedimento, condurranno all'ottenimento del risultato finale.
Detto per inciso, tutte le discipline di meditazione - che invariabilmente attribuiscono importanza fondamentale all'attimo presente - mettono l'accento sul singolo gesto. Alla luce di questo aspetto, considerato che ogni singolo gesto può a sua volta essere frammentato in innumerevoli micro-gesti, e così via (tendenzialmente all'infinito), fin dove può estendersi la concentrazione (l'atto mentale di attenzione ha un limite minimo temporale, correlato alla velocità dell'azione - come vedremo -, il che tra l'altro è uno dei motivi per cui Doppiovubi è lentissimo nei suoi movimenti), più il gesto su cui ci si concentra è 'piccolo', più l'azione nel suo complesso sarà compiuta (tendenzialmente) perfettamente.

Tornando al discorso principale, detto in modo molto sintetico: i 'pasticcioni' si concentrano sul fine in quanto tale, i 'perfezionisti' sui singoli micro-gesti che conducono al fine.
Ma - per natura - l'uomo cerca di 'conservare' le proprie energie.
E' dunque 'giusto' trovare il punto intermedio tra questi due estremi.
Perchè un punto intermedio c'è.

Tornando all'esempio della lavastoviglie, non ha senso concentrarsi (*) sulla modalità di ottenimento della posizione del singolo cucchiaino, mirando alla sua perfetta collocazione. Abbiamo detto prima che la lentezza estrema favorisce la concentrazione sul singolo gesto (e quindi la sua tendenziale perfezione). Ma è chiaro a tutti che è assurdo caricare la lavastoviglie mettendoci quattro ore, in modo assolutamente irreprensibile: tanto vale lavare i piatti a mano. La perfezione del singolo micro-gesto, dunque, non è un valore assoluto, ma relativo, e relativo al raggiungimento del fine primario. Tornando, per la seconda volta, nella testa di Cristiano Ronaldo, è vero - c'è da scommetterci - che si concentra sul singolo micro-gesto, ma non così tanto da smarrire il senso stesso del procedimento complessivo che lo conduce al gol. Diversamente, tutte le energie sarebbero dissipate in un dribbling perfetto, ma la partita dura novanta minuti (salvo casi rari, ossia quando l'Inter sta perdendo, allora dura molto di più, ma questo è un altro discorso).

Per chiarire questo discorso, vale l'esempio della lettura, attività che - chi più, chi meno, e con contenuti molto diversi - tutti noi svolgiamo quotidianamente. C'è chi legge Husserl, c'è chi legge un 'meme', ma lo schema dell'operazione è quello: trasformare, mediante una decodifica, segni grafici in un significato ideale. 
Da almeno trent'anni (per la precisione dal 1990) Doppiovubi studia e riflette sulla c.d. 'lettura veloce'. Sapete benissimo che la suddetta disciplina promette di 'salvare capra e cavoli': investire poco (o pochissimo) tempo nella lettura di un testo e - al tempo stesso - comprendere il significato. Nei nostri esempi, 'comprendere il significato' è il fine, il procedimento di lettura è il mezzo. Immaginiamo di avere una ipotetica 'levetta', e di spostare la velocità di lettura. Più la spostiamo verso l'alto (verso l'estremo corrispondente a leggere Guerra e Pace nello stesso tempo occorrente per sfogliare fisicamente il libro - anzi i quattro volumi - , od occorrente per toccare il display e voltare la pagina elettronica) e teoricamente più difficile diventa la comprensione. Più la spostiamo verso il basso (verso l'estremo di metterci una vita intera, concentrandoci spasmodicamente su ogni singola parola, anzi, quasi su ogni lettera di ogni singola parola) più teoricamente diventerebbe facile e completa la comprensione. Tutti voi avrete provato a leggere 'troppo velocemente': la concentrazione ne soffre, e alla fine avrete capito poco, o niente. Ma non tutti voi avrete provato a leggere così lentamente da ottenere lo stesso negativo risultato (o forse addirittura peggiore): non avete capito niente, perché non avete 'legato insieme' le singole parole (che nei nostri esempi precedenti rappresentano i micro-gesti) (**). In altre parole, la 'lettura lenta' (troppo lenta) non rappresenta una garanzia di ottenimento del risultato (esattamente come la lettura troppo veloce). Tutto questo inutile sbrodolìo di parole (a proposito, qual è il  tuo fine, caro lettore, nel leggere questo post?) per confermare l'esattezza di un concetto: 
occorre trovare il giusto mezzo.
Per individuarlo, prima occorre sapere dove andarlo a stanare.

In primo luogo, occorre capire se si tratta di un giusto mezzo oggettivo oppure soggettivo. Di primo acchito, lo so, tutti voi, o quasi, direte che ognuno ha il suo giusto mezzo. Io leggo a questa velocità (ergo, concentrazione). Io carico la lavastoviglie così. Io dribblo l'avversario in questo modo. 'A modo mio'.

Doppiovubi sostiene l'ardita tesi per cui il giusto mezzo sia un dato oggettivo. Questo da un lato ci facilita le cose, perché trovarlo è garanzia di 'successo' per tutti. D'altra parte, è molto più 'comodo' sostenere che ognuno abbia la sua 'giusta velocità' e dunque la sua 'giusta concentrazione'. 

Per stanare il 'giusto mezzo oggettivo' abbiamo dunque a disposizione alcune 'variabili' che devono essere combinate insieme. Esse sono: il grado di concentrazione sull'azione e la velocità nel compimento dell'azione, in primis. Sembrerebbe che tra i due parametri (concentrazione e velocità) intercorra un trade-off : a una maggiore velocità corrisponde una minore concentrazione, e viceversa. Ma non è detto: Lewis Hamilton è velocissimo (non (sol)tanto la sua macchina, ma i suoi riflessi), eppure è - per necessità - concentratissimo. Le stesse tecniche di 'lettura rapida' insistono sul tema per cui una maggiore velocità, in qualche modo, costringe a una maggiore concentrazione: una lettura lenta consente alla mente di 'divagare', distraendosi. La velocità costituirebbe una sorta di 'vincolo naturale' alla concentrazione. 
Secondo Doppiovubi la velocità e la concentrazione sono legate insieme da un collante speciale: il significato.
Il punto di equilibrio tra velocità e concentrazione è dato dunque da un evento di coscienza, tipicamente umano: l'agente deve andare a una velocità adeguata che gli consenta una concentrazione atta a conferire significato all'azione nel suo complesso. In altri termini, mentre si compie il singolo gesto, occorre mantenere vivo (presumibilmente in un'area parallela, a latere del/nel cervello) l'intero procedimento, e naturalmente il fine primario per cui si sta compiendo un passo di quel procedimento.
Tutti 'si riempiono la bocca' del concetto di 'algoritmo'; una macchina, a differenza di un uomo, non 'sa' dove un certo algoritmo la condurrà. Una macchina esegue la procedura istruzione per istruzione. Quando sarà inventata una macchina che autogenera l'algoritmo per raggiungere un fine qualsiasi, allora ci troveremo proiettati dentro i film di fantascienza. Per il momento, la differenza tra uomo e macchina è questa. Che l'uomo sa che vuole caricare la lavastoviglie. Un ipotetico robot non lo sa, ma esegue ogni micro-gesto. Certamente sono già stati inventati software che modulano il comportamento concreto in funzione dell'ottenimento del risultato (pre-impostato). Ma qui Doppiovubi sta parlando di conoscere e tenere presente il significato dell'intero procedimento in relazione al suo fine. Questo significa che il tempo di esecuzione, e la concentrazione (che è una risorsa non illimitata), possono e anzi devono variare, a seconda del 'passo' del procedimento e del contesto. Ci sono, in ogni procedimento, momenti più 'critici', e momenti meno 'critici'. Non è necessario che Cristiano Ronaldo metta tutta la sua energia in un banale tocco di palla, ma è necessario che metta gran parte della sua energia nel saltare l'ultimo uomo che lo fronteggia prima di presentarsi solo davanti al portiere.
Quindi, velocità, concentrazione, procedimento nel suo complesso, scopo finale. I primi due elementi sono variabili, i secondi due sono costanti e stabiliti a priori. In qualche modo potremmo dire che ci sono due modalità di concentrazione, che lavorano 'in parallelo': da un lato la concentrazione sul singolo gesto, dall'altro la concentrazione sul procedimento complessivo e sul suo esito. Naturalmente, affinché ciò 'funzioni', è indispensabile che il soggetto, 'a monte', conosca il suo fine (e abbiamo detto inizialmente che, coi tempi che corrono, ciò spesso non accade), e conosca il procedimento per arrivarci. Sul procedimento si potrebbe scrivere un post chilometrico - in senso stretto. Doppiovubi ve lo risparmia, ma basti qui dire che ci sono milioni di persone che si muovono verso un fine che non conoscono esattamente (e che spesso non hanno nemmeno deciso, ma altri hanno stabilito al loro posto), e durante il sentiero decidono, in tempo reale, l'algoritmo da seguire, senza averlo previamente stabilito. Chiaramente, in questi casi tutto questo post va, come si diceva una volta, con espressione bizzarra, 'a farsi friggere'.
I più sagaci tra i lettori di Doppiovubi, a questo punto, avranno forse intuito che si pone la questione generale (l'eterna questione) del rapporto tra mezzo e fine, tra strumento ed esito, tra forma e contenuto. Infatti, possiamo considerare le due variabili (concentrazione e velocità), e una delle due costanti (il procedimento nel suo complesso) come strumenti utili al raggiungimento del fine
Detto in termini più 'romantici', si pone l'eterna questione del viaggio nel suo rapporto con la destinazione. Si tratta di un tema stra-trattato e stra-studiato. Fa molto 'figo' sostenere che il viaggio in sè è importante, e i più estremisti - quelli che si mettono i sandali e vanno a piedi a Santiago de Compostela - ti dicono addirittura che il viaggio è più importante della destinazione. Nei nostri esempi, è come dire che caricare piatti, pentole e cucchiaini nella lavastoviglie è più importante del trovarli già lavati e ben posizionati nello scolapiatti. Andate a raccontare a un trasportatore che riceve un ordine di consegna urgente di un pezzo necessario a far funzionare una turbina di una centrale idroelettrica, e si deve svegliare nel cuore della notte (magari mentre si riprende da altre notti insonni), montare sul suo furgone bianco, giallo e nero, e farsi novecento chilometri, andate a dire a lui che il viaggio è più importante della destinazione. 
Di sicuro, nel considerare il rapporto tra viaggio e destinazione, tra procedimento complessivo e ottenimento del risultato, possiamo affermare questo: il procedimento (il viaggio) appare quasi sempre sproporzionato rispetto al fine. Lo abbiamo già detto in un lunghissimo post precedente. Per sua natura, il 'risultato' (la consegna del pezzo della turbina, e il pagamento del corrispettivo al vettore, i piatti lavati, il gol di Cristiano Ronaldo) ottenuto, se guardato in rapporto al costo pagato per ottenerlo (novecento chilometri, disporre tutte le stoviglie, farsi allenamenti massacranti), appare come poca cosa. Ma è vero che l'uomo, quando e se (quando e se) raggiunge il risultato tende a 'dimenticare' (o quanto meno a considerare più lieve) il prezzo pagato per ottenerlo, e questo forse, come si diceva altrove, per un meccanismo genetico.
Deriva da tutto questo che il rapporto tra strumento e fine, tra viaggio e destinazione, tra algoritmo e risultato, è complesso e non immediato. E' un rapporto difficile, intricato, ricco di sfaccettature. Tutta la nostra vita è fatta, in fondo, di milioni di piccoli o grandi algoritmi, che conducono a milioni di piccoli o grandi risultati. Non è possibile risolvere la questione in modo superficiale: riguarda il senso stesso della nostra vita. Ci buttiamo a fare qualcosa - qualsiasi cosa, davvero qualsiasi cosa - e applichiamo procedimenti su procedimenti, e ogni giorno ci svegliamo e attiviamo algoritmi, e facciamo cose (e vediamo gente), e poi facciamo altre cose, e poi altre ancora, algoritmi e risultati, algoritmi e risultati, algoritmi e risultati, e poi, la fine.
Questo per dire che dobbiamo almeno pensarci un po' su. Che poi è il fine - eccolo qui, ancora, il fatidico 'fine' - di Doppiovubi quando dedica un po' di tempo a scrivere queste centinaia di post: pensarci su lui stesso, e far pensare voi. Non offrire risposte - quelle sì, si offrono, ma non hanno alcuna importanza - ma farsi domande, e sperabilmente far sì che ve le poniate anche voi, cari lettori. E ancora una volta, farsi domande su se stessi significa differenziarsi ulteriormente dalle macchine. Essere un po' più umani. 
E allora aggiungiamo altra 'carne al fuoco', cerchiamo di essere ancora più umani.

La tesi che Doppiovubi vuole sostenere qui è che il mezzo ha un'importanza speciale, non 'in sè' (come nel caso del cammino di Compostela), ma proprio in rapporto al fine. Secondo Doppiovubi è sbagliato vedere il fine come avulso dall'algoritmo. Non è corretto scindere la strada dalla destinazione. Una non esiste senza l'altra. Il desiderio - come fine - non ha senso senza il percorso necessario per arrivare a esso.
E non è neanche vero che il fine è più importante dell'algoritmo. Non è neanche vero che lo strumento è meno importante del risultato. Uno dei mali più perniciosi di questo tempo è l'assoluta concentrazione sul fine: come dicevamo prima, quando ti concentri soltanto sul fine, nove su dieci sbagli il procedimento e combini pasticci. L'assoluta concentrazione sul fine ti spinge poi ad abbreviare il più possibile il tempo che intercorre tra il momento in cui è scattato il desiderio, e quello in cui realizzi il desiderio stesso (che poi è un altro modo per dire che questo genera velocità, anzi, 'fretta', e sappiamo che "la gattina frettolosa ha fatto i gattini ciechi").

Proviamo, allora, a prendere la questione del rapporto tra mezzo e fine da un altro lato.

A Giancarlo - nome di fantasia - piace prendere appunti vocali sul suo iPhone. La 'app' (che poi sarebbe un programma, non si capisce perché, a un certo punto, si è sentito il bisogno di cambiare nome, da programma ad applicazione, ma comunque ci adeguiamo, come diceva Maurizio Ferrini in Quelli della notte, non capisco, ma mi adeguo) si chiama 'Memo Vocali'. Giancarlo ama registrare memo vocali con la sua app. Il suo fine è quello di ricordare velocemente 'cose da fare', o prendere nota di alcuni pensieri che gli vengono in mente. E' una buona cosa. E' un buon fine. La 'app' 'Memo Vocali' ti consente di fare una cosa che solo qualche anno fa potevi fare soltanto comprando un microregistratore, e spendendo un centinaio di euro almeno (soltanto che un microregistratore esigeva batterie ministilo, a volte una microcassetta con nastro magnetico, aveva problemi di capacità e di organizzazione delle registrazioni, nonché una modesta 'qualità audio'). 
Per ottenere questo fine, Giancarlo attua un algoritmo. Saltiamo la fase preliminare (individuare dove si trova il suo telefono (o smartphone), prenderlo in mano, schiacciare il pulsante centrale, spostarsi nella pagina dove c'è l'icona 'Extras' (o altro a seconda delle versioni), dove è contenuta (se non è stata cambiata la configurazione di default) l'icona di 'Memo Vocali' ed entrarci, ed ecco che non abbiamo affatto saltato la fase preliminare) - che comunque costituisce parte dell'algoritmo, e andiamo al punto.  
Una volta che Giancarlo preme l'icona 'Memo Vocali', che è tutta nera con un'onda sonora stilizzata, separata in due parti da una linea verticale blu, a sinistra l'onda è rossa e più accentuata, a destra è bianca e meno accentuata, a significare che c'è stata una registrazione dove il volume del suono in ingresso in un primo momento era maggiore e poi è diminuito (vi direte, ma perché Doppiovubi insiste su questi dettagli inutili? un motivo c'è, lo vedremo dopo), una volta che Giancarlo preme l'icona 'Memo Vocali', davanti a Giancarlo si aprono due possibilità. La prima è la più immediata: premere il tasto rosso e registrare, parlare dentro il suo smartphone per un tempo anche molto lungo, e poi ritrovare un file che viene automaticamente denominato 'Nuovo memo x' dove x è un numero progressivo che parte da 1 e termina con il massimo numero consentito dalla memoria dell'iPhone (o dell'iCloud). Se Giancarlo segue questa strada, non c'è dubbio che realizzi immediatamente il suo fine primario, che è quello di 'registrare un suono' (nel caso di specie, la sua voce) e poterlo riascoltare quanto vuole.
La seconda possibilità che si apre davanti a Giancarlo è meno immediata, e richiede che Giancarlo investa un po' di tempo ed energie. Giancarlo può dunque osservare con attenzione la schermata iniziale, e ritrovare in essa la cartella 'Tutte le registrazioni' con il numero complessivo di esse, poi l'icona di un cuore, che rappresenta la cartella 'Registrazioni preferite', che è utile perché se le registrazioni sono tante, possono essere ritrovate più facilmente, poi la cartella contrassegnata da un orologio ('Registrazioni Apple Watch') sempre che G. abbia l'orologio Apple, e infine il classico cestino 'Eliminati di recente'. Ma in basso a destra compare anche il simboletto della cartella con un '+', che vuol dire che G., se vuole, può creare tante cartelle dal nome personalizzato, e infilarci dentro alcuni memo vocali a seconda del tema, dell'argomento specifico. 
Questo esame può continuare all'interno del singolo Memo vocale, e G. può scoprire che può rinominare la registrazione, rendendola significativa e reperibile, può modificarla, riprenderla, cancellare il rumore di fondo, tagliare pezzi indesiderati e sostituirli, condividerla, copiarla, duplicarla, salvarla come file separato dalla 'app', e altro.
Insomma, le scelte a disposizione si moltiplicano, se solo si dedica un po' di tempo a studiare le funzioni di 'Memo Vocali'. Se poi G. va sul sito Apple, alla voce support, troverà varie guide - assolutamente ben costruite - su come usare 'Memo Vocali'.
La cosa interessante non è questa, perchè ovviamente sapevate già che si può approfondire l'uso di un qualsiasi software, è una banalità. La cosa interessante è che il numero di scelte (che in gergo informatico si chiamano opzioni) di 'Memo vocali' è un numero chiuso, un numerus clausus. Doppiovubi non si mette a contarle, ma ipotizza che siano una trentina, non di più. Per conoscerle e capirle tutte bene, fino in fondo, occorreranno, a esagerare, circa trenta minuti. Alla fine Giancarlo certamente potrà utilizzare Memo vocali in modo completo, al 100% - come si suol dire. Anche questa non è una novità. Sapevate benissimo che si può conoscere un software in tutti i suoi dettagli, è ovvio. Ma Doppiovubi richiama la vostra attenzione sul fatto che confrontando la prima possibilità che si pone a G. (un uso immediato, e due opzioni, forse una sola), e la seconda (trenta minuti di analisi, e trenta opzioni), il rapporto è nettamente sbilanciato a favore della seconda. L'uso di 'Memo Vocali', nel secondo caso, consentirà un risultato migliore (avremo files puliti quanto al suono, privi di silenzi inutili, nominati secondo un criterio, inseriti in una cartella dal nome significativo, magari copiati in una cartella fuori dalla 'app', etc.) e dunque una soddisfazione maggiore. 
E' poi l'idea in base alla quale Salvatore Aranzulla ha avuto successo. Non ha fatto altro che andare a studiare le funzioni, le opzioni, di ogni software, anche di quelli che controllano gli hardware, una per una, funzione per funzione, e poi le ha 'spezzettate' in testi separati; così, ha creato migliaia di 'articoli', per esempio, non su 'Excel' in generale, ma su come realizzare una specifica funzione in 'Excel'. Un mondo di persone ha un mondo di esigenze, quindi, prima o poi, qualcuno  - che non ha studiato 'Excel' perché non ne ha voglia -, si chiede come realizzare una specifica funzione che gli occorre, e - oplà - ecco un articolo specifico su come farlo. Il segreto del successo di Aranzulla è la pigrizia (e la fretta, sua sorella) altrui.

E' chiaro a tutti che stiamo ancora parlando di 'strumenti' in relazione al 'fine'. Qualcuno potrà eccepire: il fine di G., registrare e ascoltare, è realizzato in venti secondi, 'risparmiando' così quasi trenta minuti. E' un argomento apparentemente logico, ma pericoloso. In primo luogo, con tale argomento si confrontano due entità non omogenee: la prima (venti secondi), con la seconda (trenta minuti) sembrano essere tali, cioè omogenee (ed è chiaro che se così fosse, sarebbe lapalissiano che è meglio dedicare a un'operazione venti secondi anziché trenta minuti), ma in realtà non è così: nel primo caso Giancarlo è 'condannato', per così dire, a registrare centinaia, migliaia di memo vocali senza alcun uso consapevole e soddisfacente, nel secondo caso l'investimento di trenta minuti è svolto una tantum, e i suoi frutti saranno raccolti in abbondanza, su ogni singolo file registrato ed elaborato in futuro. Infatti G. non è un essere vivente che nasce e muore con l'unico fine di registrare un singolo file sonoro: si spera che la sua vita duri a lungo, e i suoi fini - anche solo in quell'ambito - si ripetano molte volte. Ci sono poi vantaggi più sfumati, di tipo psicologico, ma non da poco: come la consapevolezza, in sé considerata, di conoscere appieno le funzioni di un oggetto, la sensazione di controllarlo anziché esserne controllati, e infine uno speciale rapporto (seppur indiretto) con chi ha creato la 'app'. Quando vai a studiare le singole funzioni, in qualche modo ricostruisci a ritroso il modus cogitandi di un team di esperti, che non solo sono programmatori, ma anche ingegneri progettisti, che hanno riflettuto a lungo (e bene, stiamo parlando della Apple), su quali opzioni fosse giusto inserire e quali no, perché avrebbero 'appesantito' il sistema; su come visualizzarle, per consentire a un utente medio di capire, su quali icone usare (ricordate la descrizione dell'icona colorata?) e dove posizionarle. Gli 'aggiornamenti', poi, rappresentano prese di posizione su errori commessi, oppure volontà di miglioramento. 
Infine, non dimentichiamo che l'iPhone non ci è costato 'poco'. Se vogliamo dare un senso al prezzo che abbiamo pagato, è 'giusto' studiare 'bene' le funzioni di una 'app' in esso contenuta. Altrimenti, tanto valeva comprarsi un telefono da € 29,99, che pure ha -ormai- la funzione di registratore vocale. 
Si tratta della 7a e ultima regola (salvo l'ottava, individuata nel 2004) di Stephen R. Covey ("Affila la lama"), che cita Lincoln, il quale (dicono che) disse: "Se avessi a disposizione otto ore per abbattere un albero, ne passerei sei ad affilare l’ascia". Lo 'strumento' è fondamentale. 
Possiamo dunque interpretare tutto quello che ci circonda nel 'mondo' come fosse la 'app' 'Memo Vocali', presa a esempio. Un rene, per esempio, è un 'oggetto' contenuto nella nostra 'pancia', che fa 'delle cose'. E' nascosto, non lo vedremo mai (il 'nostro' rene), non ci sono 'iconcine' sopra che ci spiegano che cosa è in grado di fare, ma una 'Guida', un 'Supporto', volendo, c'è: ci sono migliaia di libri e testi che ci spiegano, più o meno approfonditamente, che cosa fa un rene, quali sono le sue opzioni, e come possiamo 'usarlo' meglio, evitando alcuni errori, o migliorandone la funzionalità.
Conoscendo lo strumento-rene, ne 'onoriamo' l'esistenza. Come nel caso di 'Memo Vocali' avevamo stabilito un rapporto con i progettisti Apple, nel caso del rene, studiandone le funzioni, entriamo in rapporto con Chi l'ha costruito: se proprio volete mantenervi, con pervicacia, sul piano dell'ateismo o dell'agnosticismo, entriamo in rapporto con la 'Natura' e con l''evoluzione'. E studiando il rene giustifichiamo anche il prezzo che abbiamo pagato per averlo, come per l'iPhone. Come dite? non abbiamo pagato alcun prezzo per averlo e mantenerlo in opera? forse, ma andate a leggervi il chilometrico post di qualche giorno fa, e poi ne riparliamo.
Insomma, l'atteggiamento che possiamo avere nei confronti del mondo, e della nostra vita in generale, è quello descritto inizialmente. Se ci riferiamo al fine che di volta in volta ci poniamo, passeremo inconsapevolmente e distrattamente sopra l'esistenza di tutti i mezzi che ci occorrono per raggiungerlo. Ma i mezzi rappresentano il mondo stesso, la vita stessa, non possiamo by-passarli, come se non esistessero. Lo strumento conta quanto il fine, e un uso consapevole dello strumento conferisce un significato stesso all'insieme inscindibile costituito da mezzo e fine, procedimento e risultato, viaggio e destinazione. 
Doppiovubi, peraltro, non vuole sostenere qui che il mezzo, lo strumento, l'algoritmo, possa assurgere a importanza tale da diventare fine a se stesso. 

Questo ci conduce all'esito del ragionamento: i contenuti. Finora abbiamo detto: conoscere tutte le funzioni di 'Memo Vocali' ci consente di registrare file migliori e meglio organizzati. Ma non abbiamo ancora detto niente riguardo ai contenuti. Giancarlo, infatti, potrebbe registrare un file di sessanta secondi - perfettamente realizzato e organizzato con il suo bravo nome e inserito nella giusta cartella - consistente in un minuto intero di versi privi di significato, tipo "ba... baa... baaa...". Oppure potrebbe incidere un suo importante commento critico alla teoria di Fritjof Capra esposta in 'Vita e Natura', sul pensiero sistemico. In altre parole, una perfetta conoscenza, e un perfetto uso di uno strumento, ci consente sì di realizzare il nostro fine (registrare e salvare), ma se non ci riferiamo anche ai contenuti, siamo ancora a zero. 
E' chiaro a tutti che parliamo di fasi progressive, e del concetto di 'condizione necessaria', ma 'non sufficiente'. Posso conoscere perfettamente un lettore DVD, con tutte le sue funzioni, ma se inserisco nella fessura 'Driven' con Sylvester Stallone oppure 'Americani' con Al Pacino, le cose cambiano.
Un conto è sapere come si può realizzare una fotografia, conoscere tutte le opzioni software possibili, un altro conto è scegliere un soggetto, inquadrarlo, decidere la propria posizione, la luce, il momento: quello è il vero 'contenuto' della fotografia, e della vita.
Insomma, studiando lo strumento si ricava una certa soddisfazione, in ogni caso, sia nella fase di apprendimento, sia nella migliore realizzazione del fine che ci siamo proposti. 

Per inciso, il guaio di questi tempi, 'che corrono', è che non solo la quasi totalità degli esseri 'umani' non è interessata a conoscere e a usare 'bene' gli strumenti, ma salta a pie' pari quella noiosa fase, e - oltre tutto - si 'nutre' di contenuti pessimi. Non solo 'non mi interessa' conoscere il funzionamento dello stomaco e dell'intestino (tanto funzionano da soli, anche se non so come fanno), ma ci butto dentro anche cibo-spazzatura.

Le azioni hanno un 'significato', che prescinde dai nostri scopi contingenti. Noi pensiamo di 'registrare un file' per un certo tipo di 'fine', ma il significato dell'operazione si eleva al di sopra di ciò che intendiamo fare nello specifico. In realtà, tramite quella registrazione,  a un livello superiore (il livello del significato) stiamo superando il problema dell'oblio. Stiamo fornendo la nostra piccola, personale, soluzione all'enorme problema dell'oblio. La 'scrittura', come attività umana che ha avuto inizio millenni fa, voleva superare proprio questo stesso problema. Quando CR7 - dopo allenamenti estenuanti, protrattisi per anni - supera un difensore e segna un gol, che cosa sta facendo? da un punto di vista prettamente formale - superficiale - sta realizzando il suo 'fine': segnare un gol, anzi, segnare più gol possibili. Ma dal punto di vista del significato della sua azione, sta, tra l'altro, soddisfacendo bisogni emotivi legati al valore personale, suo e dei suoi tifosi (ora, inglesi). E' per questo che un conto è un gol con una altissima e spettacolare rovesciata (come quello che lo stesso CR7, giocando con gli spagnoli, siglò lasciando attonito il povero De Sciglio in Juventus - Real Madrid), e un altro, ben diverso, conto è un gol di ginocchio-coscia frutto di un rimpallo fortuito (come quello che fece Christian Vieri nel finale del derby del 3 marzo 2002 a un Milan che perse, ma meritava la vittoria). Entrambi i gol 'segnano 1', entrambi 'valgono 1', realizzano il 'fine' di 'segnare un gol', ma il significato del primo è molto diverso dal significato del secondo. E' chiaro che, dal punto di vista oggettivo - che sarebbe la modalità di osservazione compiuta da una macchina - una sfera di 69 centimetri di circonferenza, composta da poliuretano, poliestere e viscosa, che varca, attraversa, un piano ideale (perpendicolare rispetto al terreno) a forma di rettangolo delle misure di 7,32 metri per 2,44 metri, non è nient'altro che un oggetto che si sposta da un luogo a un altro luogo. Ma dietro alla traiettoria di quell'oggetto abbiamo costruito una serie di significati emotivi, psicologici, esistenziali e sociali, enormemente più complessi. 

Ancora una volta, è necessario salire di livello, e chiedersi il senso, il significato di quello che stiamo facendo. Se tutta la nostra vita si riduce a una serie di micro o macro algoritmi, utili a realizzare fini materiali, allora la vita non è degna di essere vissuta. 
E perchè mai siamo 'chiamati' a conferire un significato alle nostre azioni? la risposta è: perchè siamo fatti così, perchè l'attribuzione di un significato a ciò che si compie definisce e qualifica l'essere umano in quanto tale. Ancora una volta, gli esseri umani non sono macchine, e le macchine non danno significato a quello che fanno. Per la verità, e proprio perché oggi non si attribuisce un significato a quello che si fa, che purtroppo gli esseri umani, ormai, stanno diventando sempre più simili a macchine. Il principio è che bisogna fare, e dunque è 'giusto' fare, ciò che ci qualifica e ci definisce.

"Καλῶς πάντα πεποίηκεν" (Marco, 7:37). 

W.B.

(*) Ha senso concentrarsi, in modo 'totale', sul singolo gesto soltanto se miriamo al sati. In questo caso, però, il fine non sarà più quello di 'caricare la lavastoviglie', ma quello, diverso e avulso da qualsiasi fine contingente, di entrare nell'attimo presente, così 'dilatando' il tempo. Per inciso, per chi volesse affidarsi -purtroppo- a Wikipedia, non cerchi 'Sati' in italiano (perchè l'unico fuorviante risultato sarà la divinità induista), bensì, dopo un'opportuna disambiguation, 'Sati (Buddhism)', soltanto in inglese, quale settimo elemento dell'ottuplice sentiero. Per una pura coincidenza (?!), nel testo di questo post, si è fatto riferimento alla settima regola di S. R. Covey, il quale stabilì un totale di otto regole.
(**) In realtà non è così semplice. Qualche anno fa, S.S. raccontò a Doppiovubi che - in una delle sue lunghe notti insonni - visse la volontaria esperienza di muoversi in modo lentissimo. Doppiovubi sta pensando e ripensando a quell'esperienza da molto tempo, e ora quelle riflessioni 'tornano buone'. Se compi un gesto in modo così lento, si verifica chiaramente uno smarrimento del fine. Se devi andare dalla cucina al salotto, e ti muovi alla velocità di un bradipo, è molto difficile, dal punto di vista psicologico, mantenere 'vivo' lo scopo di 'raggiungere il salotto'. Questo ci porta a dire che lo 'scopo' non esiste in senso oggettivo, ma soltanto soggettivo e psicologico. E' la mente che interpreta il microscopico gesto come facente minuscola parte di un algoritmo che si concluderà con il risultato di 'trovarsi in salotto'. La lentezza assoluta fa emergere - sempre psicologicamente - l'importanza del 'fine' come 'ciò che ci guida'. Ed è forse l'intensità (una variabile che purtroppo non è stata considerata in questo post) con cui desideriamo il risultato, a determinare la velocità con la quale realizziamo il procedimento stesso. Forse, senza scherzi, occorrerebbe studiare a fondo il bradipo. A luglio 2021 è uscita la traduzione italiana - per HarperCollins Italia - di un libro spettacolare: "Zanzare. Il più micidiale predatore della storia dell'umanità.", del bravissimo Timothy Winegard. Ci vorrebbe un libro simile sui bradipi, e forse capiremmo qualcosa di più, anche sotto il profilo fisiologico, sul rapporto tra velocità, fine e mindfulness.

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