La Tara.


Non stiamo qui parlando della TARI (la tassa), e nemmeno dell'ATARI (la consolle degli anni '80), e neanche della TIARA (la corona papale). Stiamo parlando - seppur in termini metaforici - di "quanto deve detrarsi dal peso lordo di una merce per avere il peso netto".

Prendiamo un 'rapporto affettivo' in genere (l'amore, l'amicizia, il volersi bene), per come viene inteso e interpretato oggi. Doppiovubi si/vi chiede: se togliamo da questo 'rapporto affettivo' l'utile, il vantaggio, il beneficio, che cosa resta? Non parliamo necessariamente di un utile in senso puramente economico. Può trattarsi di tranquillità, sicurezza, protezione, evasione dalla noia, stimolo, piacere, sentirsi amati o benvoluti o apprezzati o compresi o rassicurati, in ogni caso di elementi a proprio favore, guadagni, incrementi di utilità in capo a chi prova (dice di provare) il 'sentimento'.

Se dalla espressione linguistica 'ti amo', o 'ti voglio bene' togliamo la tara, cioè l'utile, che cosa resta di questo 'sentimento'?

Tu, che mi stai leggendo adesso (*), prova onestamente a immaginare - rispetto a chi sostieni di 'amare' - che cosa resterebbe del tuo preteso 'amore', se la persona che sostieni di 'amare' non ti arrecasse più alcuna utilità. Molte 'relazioni' finiscono proprio quando il vantaggio - in termini di calcolo utilitaristico tra costi e benefici - non giustifica più il mantenimento della relazione medesima. Essere in relazione con un altro essere umano non è semplice, c'è sempre un prezzo da pagare, se non altro per 'sopportare' l'altro-da-te, la sua insopprimibile diversità. E paghi il prezzo quando il beneficio che ricevi supera il costo che devi sopportare, altrimenti non lo paghi, o non lo paghi più. Lasci l'oggetto sullo scaffale. Non serve. Piuttosto ti prendi un cane, che è utile. Hai un ritorno.

Utilitarismo, dunque, utilitarismo puro. Qui non stiamo parlando di 'amore', stiamo parlando di 'utilità'. Qui non stiamo parlando di 'amicizia', bensì di 'benessere'.

Questa è la fotografia della situazione attuale, generalizzata e diffusa. Possiamo cambiare il mondo? no di certo. Forse non possiamo cambiare nemmeno il nostro micro-cosmo. Forse non riusciamo nemmeno a cambiare noi stessi, ammesso e non concesso che riusciamo a vedere come siamo fatti per davvero.

La fotografia, tuttavia, ha bisogno di una giusta didascalia. L'importante (se le parole sono ancora importanti) è che - sotto questa cosa - non ci scriviamo, con la penna, la parola 'amore'.

E' già qualcosa.

W.B.

(*) Ma io non sono così! Non è certamente di me che Doppiovubi sta parlando! Il mio amore è amore vero, gratuito, privo di qualsiasi corrispettivo, e senza calcoli!

Nota interpretativa: come si evince da un amaro capoverso qui sopra, la Weltanschauung di Doppiovubi è che non si possa cambiare il mondo, per lo meno, non con la sola forza umana. Dunque, le considerazioni qui espresse sono rivolte primariamente, e anzi esclusivamente, allo stesso Doppiovubi. Doppiovubi punta l'affilato indice accusatorio non contro 'gli altri', ma contro se stesso. E' un atto di auto-accusa. La 'fotografia', in realtà, è un selfie.

Doppiovubi scrive qui a se stesso, per se stesso, su se stesso, come sempre, del resto. 
L'unico locus ove è possibile - forse - il cambiamento, è quello che ci appartiene, che ci riguarda, entro i nostri confini corporei e psicologici; oltre, sono in agguato l'errore e il fallimento. Dunque il giudizio 'sugli altri' è impossibile, e, se formulato, sarà sbagliato per definizione, perché non abbiamo nemmeno gli strumenti adatti per giudicare. E' dunque ben possibile che il quadro tratteggiato, un quadro cinico, caratterizzato dall'utilitarismo, sia in realtà unicamente la descrizione del mondo interiore di Doppiovubi, un mondo - in ipotesi - sordido in quanto caratterizzato dall'incapacità di amare veramente. 
Ognuno guardi dentro di sé.

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