Venerdì, 9 marzo 2001.

Mia sorella mi chiamò sul cellulare, erano quasi le due e mezza del pomeriggio. Mi disse che il papà era appena morto, e che dovevo correre subito in ospedale. Mi rimproverò aspramente, perché non ero lì in quel momento.

Io, con movimenti lentissimi, mi feci la barba, con schiuma e lametta. Mentre mi radevo, e mi guardavo allo specchio, piangevo senza emettere alcun rumore. Proprio come adesso, mentre sto scrivendo.

Poi indossai un completo nero, con la cravatta scura. Volevo presentarmi bene da mio padre. Come si deve.

Mia sorella mi richiamò, voleva sapere perché tardavo così tanto. Era arrabbiata. Era nervosa. Era affranta. "Adesso arrivo, sto arrivando". Ma rallentavo sempre di più.

Non volevo andare, facevo di tutto per non andare. Arrivai in ospedale, Niguarda, verso le tre e mezza. Mia sorella e mia mamma piangevano, disperate.

Io vidi una barella, in una stanza vuota, su cui giaceva un uomo coperto da un lenzuolo. "Vai a salutarlo, vai". Non entrai.

Qualche giorno prima, nello stesso ospedale, gli avevo sussurrato, chinandomi su di lui: "Non ti preoccupare, ti riporto a casa, te lo prometto". Lui mi aveva guardato, non poteva parlare, però gli era scesa una lacrima, che non finiva più di scorrere sulla sua guancia.

Non l'ho mantenuta, quella promessa. Non ti ho riportato a casa, perdonami.

W.B.

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