Alcune brevi considerazioni sulla colpa della vittima e sulle facoltà del parassita
Conosco un ragazzo, sui trent'anni, che di recente ha subìto un procedimento penale per furto.
Lo chiameremo Tizio.
Tizio, nottetempo, si era avvalso del badge, fornitogli dal datore di lavoro, per accedere illegittimamente ai locali dell'impresa e fare razzia delle merci esposte.
Ovviamente, dopo svariate scorribande, è stato "incastrato" dalle immagini delle videocamere (si trattava di un supermercato) e dalle registrazioni del badge, di ingresso e di uscita. Letteralmente inchiodato, senza alcuna speranza.
Tizio, parlando con me e raccontandomi i fatti, si doleva soprattutto di essere stato licenziato; il procedimento penale, invece, non lo preoccupava minimamente (anche perché era precisamente consapevole di non rischiare pressoché nulla, e in effetti mi risulta che nulla gli sia accaduto).
Egli, per l'appunto, non trovava giusto che lo avessero licenziato. A parte il fatto che continuava a ripetermi che "in fondo non aveva ucciso nessuno", ero davvero incuriosito da questa sua bizzarra opinione, sulla "ingiustizia" del licenziamento. Così ho pensato di domandargli per quale motivo lo ritenesse ingiusto.
La risposta è stata incredibile. Per renderla al meglio, passerò al discorso diretto:
"Ma scusa, se tu mi dai le chiavi di casa tua per bagnarti le piante, e io rubo tutto quello che hai in casa, non è colpa mia che ho rubato, è colpa tua che non dovevi darmi le chiavi di casa tua".
Questo argumentum si ritrova in varie forme, seppur in ambiti diversi. Classico è il caso della ragazza un po' discinta, che passeggia alla stazione alla tarda sera, e viene violentata da un gruppo di nordafricani; non è proprio colpa dei migranti, in fondo è lei che se l'è cercata (dicono). E' notizia di oggi: due ragazzi hanno violentato un'amica ubriaca. Agli agenti che li arrestavano hanno detto: "Scusate, era ubriaca, voi che cosa avreste fatto?".
Sono abbastanza nauseato.
W.B.
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