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Visualizzazione dei post da marzo, 2009

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La fissò con attenzione, e improvvisamente capì. Guardò oltre il suo volto, oltre la sua scatola cranica. Vide il cervello di lei, rosato, percorso da innumerevoli ramificazioni di vasi sanguigni. E, ancora più a fondo, trovò miliardi di microscopiche reti neuronali. E, dentro queste sterminate connessioni, osservò stupito tutte le impressioni che lei aveva ricevuto, per tutto il corso della sua vita, da quando era stata concepita a pochi secondi prima dell'osservazione di lui. Erano tutte conservate fedelmente. Poi scrutò anche dentro le cellule di lei, e in ciascuna di esse vide la stessa identica e ripetuta sequenza interminabile di istruzioni. Capì che lei, di fronte a qualsiasi evento le capitasse, cercava la reazione appropriata, la sua originale responsabilità, ovvero l'abilità di rispondere, all'interno dell'unica base di dati a sua disposizione, ossia nelle sue reti neuronali e nel suo codice genetico. Non poteva che cercare in quei luoghi, dove il contenuto er

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Lei gli aveva detto: "Ma perché non hai scritto un post sulla nascita di tua figlia?" Non era una domanda, era una specie di rimprovero. Lo percepì come tale, anche se non lo era. D'altronde, erano quarant'anni, e oltre, che interpretava tutto quello che era diretto a lui come un ininterrotto rimprovero. Già, perché non aveva scritto un post sulla nascita della loro figlia. In realtà non si sentiva all'altezza, temeva di scrivere un post inadeguato all'evento più bello della sua vita. "Perché lo fanno tutti. Non mi va, è un momento intimo. Non me la sento di renderlo pubblico.", le disse, poco convinto. "Ah." concluse M., poco convinta. Aveva avuto paura di non saper rendere con la parola scritta, come sarebbe stato giusto, l'emozione che provava nel vedere quell'esserino dormire beatamente, con i due pugnetti sollevati sopra la testina. L'emozione che provava quando i due occhietti, con ventisette giorni di vita e di esperienze

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L'amico S. gli aveva scritto, in un commento a un post del suo blog, che ci sono soltanto due soluzioni: la consolazione della pagina e la contemplazione della natura. S. aveva anche scritto che le due soluzioni in realtà erano una sola. Da un po' di tempo lui non capiva bene il pensiero dell'amico S., che alle volte era effettivamente troppo oscuro. S. gli aveva detto: "Ascoltami, U., tu hai scelto la consolazione della pagina, ma non hai raggiunto alcuna consolazione." "Chi ti ha detto che ho scelto la consolazione della pagina?", gli disse U. "E' chiaro." "E' chiaro solo a te.", replicò U. con fermezza. "Dici? E' chiaro solo a me?" S. non era più tanto convinto. U. da tempo aveva capito che quando l'amico S. formulava asserzioni perentorie, era sufficiente mantenere la calma e confutarlo con fermezza. A quel punto S. dimostrava tutta la sua fragilità e metteva in dubbio tutte le sue convinzioni. "E

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Naturalmente non scrisse alcun post correttivo. Era un periodo in cui era stanco delle interpretazioni. Tutti dicevano la loro su tutto, tutti ritenevano di aver ragione su tutto. Desiderava fatti inequivocabili, che non consentissero margine all'opinione. Si scoprì a immaginare che uno sconosciuto, per la strada, gli sputasse addosso, così, senza motivo. Questo gli avrebbe consentito di saltargli addosso, dare libero sfogo all'ira, ucciderlo di pugni in faccia, senza che si dovesse nemmeno provare a discutere - perché nessuno potrebbe discutere intorno a un fatto chiaro come quello - giusto per ristabilire un ordine nelle cose. Ma nessuno sconosciuto gli sputava addosso, per la strada. W.B.

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“Ma come ti è saltato in mente di scrivere quelle cose sul blog?” disse lei. “Tanto non sono vere, è fiction, un esercizio narrativo, non dovresti prendertela.” disse lui. “Peccato che quelle cose vengono lette anche dagli altri, e poi ci credono.” “Ma se il mio blog non lo legge nessuno.” “Lo leggo io.” Lei se l'era presa, in particolare, perché lui aveva scritto che tutti lo usavano per ottenere il loro benessere. E in quel tutti era ricompresa anche lei. Lui se la cavò, o almeno credette di cavarsela, con la storia della fiction e dell'esercizio narrativo (si compiaceva soprattutto per il riferimento alla fiction). In più, ingenuamente le promise, con una certa melensa solennità, che avrebbe presto scritto un altro post per così dire correttivo, con il quale avrebbe chiarito a tutti i lettori, anche se di lettori in realtà non ne aveva e non ne avrebbe avuti, che si era trattato di mera fiction e di un puro esercizio narrativo. Questo, all'apparenza, contribuì a calmarla

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E poi si chiese, Ma forse io stesso mi comporto così con gli altri, forse anch'io uso gli altri per il mio benessere. Dopo averci riflettuto un po', si rispose abbastanza convinto, No, io non lo faccio. Qualche tempo prima era giunto alla conclusione che l'infelicità dell'uomo fosse sempre invariabilmente determinata da un unico fattore, ossia dalla sua capacità di costruirsi mentalmente un'aspettativa, proiettata nel futuro. La teoria si poteva descrivere così. L'uomo immagina una situazione piacevole, non attuale, per cui ovviamente la desidera, e si crea un'aspettativa. Il tempo passa, e la realtà, quando viene a esistenza, è oggetto di confronto con l'aspettativa. Normalmente non coincidono: nella fantasia tutto va secondo programma, altrimenti che fantasia sarebbe, nella realtà, invece, le cose non vanno come previsto, anzi. Quindi l'uomo – e, soprattutto, la donna – cerca disperatamente di forzare la situazione, di cambiare la realtà, per tenta

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In quei giorni si sentì molto solo. Pensò quanto fosse assurdo, e vano, che tutti, intorno a lui, si preoccupassero costantemente, e unicamente, di trovare il modo per essere felici, o, quanto meno, per non essere infelici. Che lotta assurda, e vana. Gli pareva, poi, che tutti fossero impegnati a usare lui, come fosse uno strumento per realizzare la loro felicità e il loro benessere. E fu questo pensiero, soprattutto, a dargli l'impressione di sentirsi solo. W.B.